e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Alle radici storiche dell’opera artistico-culturale di Dante

Si ringrazia il prof. Floriano Romboli per aver concesso la pubblicazione del suo contributo.

Alle radici storiche dell’opera artistico-culturale di Dante. Due recenti biografie

Affermare la storicità di un’opera d’arte, evidenziare i tanti legami di essa con la stagione culturale e con la realtà etico-civile e anche politica contemporanee, con la serie di avvenimenti individuali e collettivi che ne costituiscono la sostanza problematica oggettiva può, per quanto filologicamente meritorio, apparire da un punto di vista teorico di certo scontato.

La riflessione critica si approfondisce allorché si prendano in esame le peculiari modalità formali attraverso cui ogni autore organizza il cosiddetto “rispecchiamento”, cioè filtra e presenta le situazioni concrete, elabora le sollecitazioni ideali e passionali della propria età, sublimandone l’urgenza, disciplinandone l’immediatezza, magari attraverso una strategia di distanziamento radicale che arrivi a trasfigurarne gli aspetti obiettivi tramite le rappresentazioni immaginarie, mediante il ricorso a schermi elusivi adibiti dalla finzione letteraria. E’ indubbio al proposito che la narrazione del viaggio di Dante nei regni dell’Oltretomba è frutto di grandi capacità di raffigurazione fantastica, nondimeno è percorsa da un’attenzione costante ed esplicita a figure e avvenimenti coevi.

Occorre pertanto richiamare un’acuta osservazione di Marco Santagata, autorevole dantista da poco prematuramente scomparso, che si legge nel cuore del suo lavoro biografico ed esegetico Dante. Il romanzo della sua vita (2012):

La Commedia, dunque, è un poema bifronte: parla dei destini dell’umanità in una prospettiva escatologica e, nello stesso tempo, compie una lettura puntuale e insistita della più stretta attualità. E’ un’opera di finzione, ma in età medievale non esistono altre opere di finzione che registrino in modo così sistematico, tempestivo e quasi puntiglioso fatti della storia, della cronaca politica, della vita intellettuale e sociale contemporanei. E, per di più, senza temere di addentrarsi in retroscena noti solo per sentito dire o in quello che oggi chiameremmo gossip politico e di costume. Per molti aspetti, assomiglia agli odierni instant-book.

L’arditezza della definizione non attenua la validità del rilievo: la meditazione morale-antropologica e il profetismo nutrito di robusta cultura teologica sono strettamente connessi alle vicende di un singolo, s’intrecciano con il racconto auto-biografico; e la considerazione può altresì estendersi, con le dovute, ben comprensibili distinzioni, alla produzione teoretica, ove lo scrittore viene “loicalmente disputando”, per usare le parole con le quali Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (1362) si riferisce alla Monarchia. D’altronde relativamente al medesimo libro così si esprime Alessandro Barbero nel recentissimo Dante (2020):

(Si era dato alla scrittura del) grande trattato politico in cui il guelfo diffidente verso la curia romana e l’uomo di comune atterrito dalle lotte fratricide che dissanguano l’Italia esalta il governo dell’imperatore come l’unica garanzia di pace.

La ricostruzione accurata delle varie fasi della vita – lavoro arduo e senz’altro complicato per la scarsità (specialmente per il periodo dell’esilio) del materiale documentario – si rivela quindi condizione essenziale per l’adeguata comprensione e il conseguente apprezzamento dell’originalità e del valore delle opere artistiche e dottrinali di Dante.

Ogni lettore ha ben presente l’importanza capitale di Firenze entro l’universo intellettuale e affettivo del poeta. Conoscerne esattamente la fisionomia urbanistica, la vita economica vivacissima, le dinamiche politiche contraddistinte da un grado di conflittualità sovente aspro e violento contribuisce in maniera decisiva a suggerire il quadro complessivo, a prospettare il fondamento di una corretta interpretazione.

Rammenta Santagata che “la Firenze in cui Dante ha vissuto fino all’età di trentasei anni non assomigliava alla città che poi sarebbe diventata famosa nel mondo per i suoi monumenti architettonici (…) E’ una città medievale: un intrico di vie strette, di case di pietra e di legno addossate le une alle altre, un insieme disordinato di abitazioni, fondaci, botteghe e magazzini intervallato qua e là da orti, vigneti e giardini. Le chiese sono numerose, ma di piccole dimensioni”; mentre Barbero si diffonde maggiormente nella descrizione storico-sociale:

Dante nacque e visse fino a 35 anni in una città che per l’epoca era immensa: coi suoi 100.000 abitanti era una delle più grandi metropoli d’Europa. I suoi mercanti operavano in tutte le città del mondo cristiano, e i suoi banchieri gestivano le finanze del papa, cioè della più colossale multinazionale esistente al mondo. I profitti erano vertiginosi, gli arricchimenti velocissimi, la mobilità sociale più importante che in qualsiasi altro luogo, e tuttavia tra i fiorentini l’avidità, l’invidia e la paura anziché placarsi diventavano sempre più feroci, avvelenando la convivenza collettiva.

Gli Alighieri erano una famiglia di piccoli proprietarî e di prestatori di denaro ad alti tassi di interesse, evidentemente collocati in una zona “mezzana” della società fiorentina, giacché “non erano magnati, e neppure i Portinari, che però erano molto più ricchi e influenti di loro; (invece) i Donati e i Cavalcanti erano tra le famiglie più prestigiose e potenti della città”.

Santagata insiste piuttosto sulla modesta posizione dello scrittore, che “non apparteneva né all’aristocrazia di sangue né a quella del denaro” e che “doveva trovarsi in perenne crisi di liquidità”; resta il fatto che egli poté permettersi di non esercitare un mestiere e di dedicarsi interamente agli studî rigorosi di grammatica (e quindi di latino), di retorica, di epistolografia e di cultura generale – sotto la guida di quel Brunetto Latini del Trésor, rinomato intellettuale fiorentino di saldo orientamento guelfo, morto nel 1293 – e pure delle lettere, premessa all’approfondimento dei classici latini, alle assidue letture bibliche e ai componimenti in versi di materia lirico-amorosa, nell’àmbito dei quali traspare l’incipiente spiccato interesse per i temi della filosofia.

Nel canto XV dell’Inferno, incontrando il maestro e rivolgendoglisi reverenzialmente con il voi, Dante riconoscerà il pregio primario della sua lezione nell’idea della cultura come fonte di elevazione spirituale e di fama perenne : “Ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,/ la cara e buona imagine paterna/ di voi quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’eterna:/ e quant’io l’abbia in grado, mentr’ io vivo/ convien che ne la mia lingua si scerna” (vv. 82-87); gli è che il notevole, indiscusso livello di preparazione intellettuale raggiunto, e affinato con il primo soggiorno bolognese databile tra il 1286 e il 1287, gli valse l’ammissione nella cerchia esclusiva dell’aristocrazia di letterati-pensatori quali Lapo Gianni, Cino da Pistoia, Gianni Alfani e soprattutto il grande amico Guido Cavalcanti, a lui socialmente ben superiore e inoltre “magnate fino al midollo, anzi uno dei più altezzosi e violenti, regolarmente coinvolto negli scontri anche fisici tra le fazioni nobiliari” (Barbero).

La carriera letteraria culminata nella composizione del giovanile prosimetro della Vita Nova, ultimato nel 1295 e che ha il suo motivo centrale, il focus etico-estetico nell’amore per la giovane Beatrice Portinari, morta l’8 giugno 1290, registra l’obiettiva promozione personale dell’Alighieri, in quanto la donna “apparteneva all’alta società cittadina e con il matrimonio, contratto con Simone dei Bardi, si era trasferita in una famiglia ancora più illustre”(Santagata) e davvero facoltosa perché leader della finanza cittadina.

Le distanze di condizione comunque rimanevano e la coscienza dell’altezza del proprio ingegno a petto dell’inferiorità sociale può ritenersi, in un moto palese di compensazione, una delle ragioni principali dell’illimitato senso di sé, di quell’ego smisurato che caratterizza costantemente la personalità dell’autore della Commedia, il quale, sostenuto da vivissima auto-stima, si considera individuo di assoluta eccezionalità, pronto “(a) essere o…sentirsi o… presentarsi diverso dagli altri” – cito da un altro lavoro dello studioso appena sopra menzionato, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante (2011) –, in quanto destinato a una funzione incomparabile, a una missione senza uguali.

Una consapevolezza siffatta il poeta portò anche nel momento in cui si accostò con intensa partecipazione alla politica, che in precedenza aveva osservato, magari con curiosità, ma con interesse invero assai limitato, lui, “che invece dai trent’anni in poi sarà letteralmente posseduto dal demone della politica” (Santagata), la quale nel tempo gli procurerà tanta sofferenza, cocenti delusioni e il trauma sconvolgente dell’esilio.

Nell’operetta precedentemente ricordata Boccaccio, fervido ammiratore del genio artistico e della profondità del pensiero di Dante, gli rimprovera di aver ceduto alle esigenze della vita pratica, di aver preso moglie e messo su famiglia, sottraendo tempo ed energie alla concentrazione intellettuale e a quel sapere astratto e disinteressato per il quale fin dall’inizio egli mostrò così manifesta congenialità. Diamogli direttamente la parola:

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di sollecitudine e tranquillità d’animo disiderare, e massimamente gli speculativi, a’ quali il nostro Dante, sì come mostrato è, si diede tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio della sua vita infino all’ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e importabile passione d’amore, moglie, cura familiare e publica, esilio e povertà (…) La familiare cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto l’avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono, che, senza guardare donde s’era partito e dove andava con abandonate redine, quasi tutto al governo di quella si diede.

Può sorprendere questa concezione dell’attività intellettuale programmaticamente separata dalle esperienze sentimentali, domestico-familiari, e dalla preoccupazione per i problemi legati all’interesse collettivo, e quindi dall’impegno politico; è certo tuttavia che, privata di determinati, sostanziali nuclei tematici, di taluni stimoli ideali pervadenti, la poesia dantesca risulterebbe grandemente impoverita, poco rimarrebbe del suo spirito fondamentale, di quell’ethos e di quel pathos intimamente caratteristici di cui discorreva Benedetto Croce nelle pagine conclusive della sua celebre monografia pubblicata proprio cento anni fa in occasione del sesto centenario della morte del nostro scrittore.

È noto che Dante fu un guelfo “bianco”, parteggiò per la fazione capitanata dalla famiglia di Vieri dei Cerchi, che aveva le sue case nella zona della città ove viveva l’autore, nel medesimo sestiere di San Pier Maggiore. Egli aveva fatto propria la tendenza ideologico-politica meno intransigente all’interno del guelfismo, un orientamento distinto da quello del partito “nero”, che in Firenze faceva capo a una potente famiglia di antica nobiltà, i Donati di messer Corso, con i quali l’Alighieri si era imparentato in seguito al matrimonio con Gemma di Manetto Donati; la sua era pertanto una posizione aperta ad alcune istanze ghibelline, ma soprattutto favorevole al governo del popolo, secondo che opportunamente puntualizza Alessandro Barbero:

Politicamente, insomma, era un popolano, sia pure di orientamento moderato, incline al compromesso con i Grandi e inorridito dalla dittatura della gente dappoco. E del popolo doveva condividere quella che all’epoca era diventata l’ideologia ufficiale: che non insisteva tanto sull’allargamento verso il basso della partecipazione al potere, quanto piuttosto sulla supremazia della legge e delle procedure pacifiche, finalizzate alla difesa della concordia e del bene comune, rispetto al ricorso alla violenza da cui erano continuamente tentati i magnati.

Oltre che per questo, Dante si segnalò per il tipico atteggiamento filo-papale, che – a differenza di altre città toscane come Pisa e Siena, tradizionalmente ghibelline – rappresentava, dopo la terribile e tanto cruenta battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), quasi un tratto identitario della sua città e che egli sottoscrisse, facendovi esplicito e convinto riferimento all’inizio dell’Inferno, riflettendo sui motivi del viaggio di Enea nel regno eterno narrato da Virgilio nel suo poema: “Tu dici che di Silvïo il parente/ corruttibile ancora, ad immortale/ secolo andò, e fu sensibilmente./ Però, se l’avversario d’ogne male/ cortese i fu, pensando l’alto effetto/ ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale/ non pare indegno ad omo d’intelletto;/ ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero/ ne l’empireo ciel per padre eletto:/ la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,/ fu stabilita per lo loco santo/ u’ siede il successor del maggior Piero” ( canto II, vv. 13-24).

A tale concezione, incardinata sul riconoscimento del primato di Pietro, stabilito dalla Provvidenza, egli si mantenne nel complesso fedele per tutto il tempo in cui il suo àmbito politico-operativo si limitò a quello di un “uomo di municipio”, fino al colpo di stato attuato dalla parte nera con l’appoggio di Carlo di Valois, a ciò indotto da papa Bonifacio VIII, che per il poeta comportò la cacciata da Firenze con la sentenza resa nota il 27 gennaio 1302.

L’Alighieri non tornerà più nella sua città, nonostante i varî tentativi effettuati, compreso un piano azzardato di alleanza dei bianchi con i fuoriusciti ghibellini, che culminò nell’imbarazzante, rovinosa sconfitta della Lastra (20 luglio 1304). Il patto collaborativo con i nemici di sempre fu considerato da molti come un tradimento; e pure per questo Dante nella prima cantica – magari nella prospettiva del perdono e di un possibile rientro dall’esilio – rivendicherà la propria appartenenza storico-ideologica con orgogliosa energia, con il vivace risentimento polemico che si coglie nel dialogo con Farinata degli Uberti: “ ‘(I tuoi antenati) fieramente furo avversi a me e ai miei primi e a mia parte,/ sì che per due fïate li dispersi’./ ‘S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte’,/ rispuos’ io lui, l’una e l’altra fïata;/ ma i vostri non appreser ben quell’arte’” (canto X, vv.45-51).

Una volta che fu irrimediabilmente lontano dal “bel San Giovanni”, la triste vita dell’esule, le continue, umilianti peregrinazioni, lo spettacolo sconfortante di una crescente disunione fra le città, fra i territori, l’equivoco destabilizzante costituito dalle mire temporalistiche dell’autorità religiosa produssero in lui un chiaro superamento dell’ottica municipale, con l’adozione di un punto di vista generalistico, universale, rivolto alla ricerca di un nuovo, stabile equilibrio istituzionale-politico dell’intera comunità cristiana. Più precisamente venne maturando una visione imperiale e unitaristica, della quale Marco Santagata definisce con incisività le coordinate teoriche e valoriali:

(L’) istituzione non può che essere l’impero, tanto più che esso è la fonte della legittimità del potere delle grandi stirpi feudali che di tale utopistico progetto costituiscono i pilastri. Per un uomo formatosi all’interno di un Comune italiano la virata ideologica non poteva essere più netta. Con ciò Dante non diventa un ghibellino: la sua utopia, in effetti, prevede proprio il superamento delle divisioni partitiche, a cominciare da quella esiziale tra la “parte dell’impero” e la “parte della chiesa”. Senonché l’impero latita, è lontano, da molti anni si disinteressa dell’Italia.

E’ l’animus sotteso ai canti del Purgatorio, iniziato forse a Lucca tra il 1308 e il 1309: qui il diverso atteggiamento, che sviluppa spunti già presenti nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, si obiettiva nelle forme congiunte della denuncia veemente e dell’invocazione accorata: “Guarda come esta fiera è fatta fella,/per non esser corretta da li sproni,/ poi che ponesti mano a la predella (…) Vieni, crudel, vieni, e vedi la pressura/ de’ tuoi gentili e cura lor magagne;/ e vedrai Santafior com’ è oscura!/ Vieni a veder la tua Roma che piagne/ vedova e sola, e dì e notte chiama:/‘ Cesare mio, perché non m’accompagne? ’/ Vieni a veder la gente quanto s’ama !/ e se nulla di noi pietà ti move,/a vergognar ti vien de la tua fama” (canto VI, vv. 94-96 e 109-117).

Altresì la frequentazione delle corti signorili – da quella di Moroello Malaspina in Lunigiana a quella degli Scaligeri a Verona – contribuì al cambiamento: lo stesso concetto di nobiltà (un’idea che “percorre le opere dantesche come un filo rosso” (Santagata) conosce aggiustamenti significativi implicanti una differente valutazione della nobiltà di sangue, ritenuta ora condizione speciale, stato favorevole per l’affermarsi della virtù personale, al punto che il poeta, venendo a sapere nel canto XV del Paradiso che il trisavolo Cacciaguida era stato fatto cavaliere dall’imperatore (“Poi seguitai lo ’mperador Currado;/ ed ei mi cinse della sua milizia,/ tanto per bene ovrar li venni in grado”, vv. 139-141), si compiace di una nobiltà ereditaria sostanzialmente inventata.

Però il segno maggiormente indicativo del mutamento dantesco è l’entusiasmo acceso in lui dalla discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo, eletto il 27 novembre 1308 dai principi tedeschi re di Germania e come tale incoronato ad Aquisgrana all’inizio del 1309, divenuto poi imperatore a Roma in San Giovanni in Laterano il 29 giugno 1312. A supporto ideale-culturale dell’impresa di Enrico, a Pisa, dove si era stabilito ai primi di marzo 1312 al seguito della corte imperiale, scrisse il trattato in tre libri della Monarchia, completato nel 1313: in quest’opera egli sostenne con puntiglio sillogistico l’investitura divina diretta del potere politico e imperiale, senza la necessità della mediazione del pontefice vicario, dando prova ulteriore di un abito mentale incline a sistemare gli avvenimenti contingenti e gli obiettivi immediati in un discorso dal crescente respiro astraente e generalizzante.

La missione dell’imperatore, che morì, forse avvelenato, a Buonconvento, presso Siena, il 24 agosto 1312, andò incontro a una disastrosa sconfitta. Ciò fu per Dante motivo di forte turbamento e causò l’inevitabile abbandono del campo della politica: il suo profetismo, il suo volontarismo non vennero mai meno, ma assunsero caratteristiche più indeterminate e inscrissero la sua inesausta aspirazione a un grande rinnovamento dei costumi degli uomini entro un’esclusiva dimensione teologica e mistica, risolvendo ogni proposito in una dichiarazione di fede e in un pieno abbandono alla volontà onnipotente e provvidenziale di Dio.

“Dante dev’esser morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14 (settembre 1321)”: con queste parole Barbero termina la sua seria ricerca biografica, alla cui qualità poco toglie qualche lieve svista, come, nell’ultimo capitolo (p. 259), aver collocato l’episodio di Francesca da Rimini nel terzo canto dell’Inferno anziché nel quinto, secondo ch’è ben noto. Lo storico subito dopo aggiunge: “Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero”; mi permetto anch’io un’aggiunta conclusiva, che è poi un auspicio: che il grande poeta, dopo la morte, abbia avuto conforto per le pene patite e per il suo tormento, immedicabile sulla terra, abbia finalmente trovato la pace dell’anima.

Floriano Romboli