e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Francesco D’Ovidio e Inferno IV: una svista dantesca?

Articolo di Andrea Gianfrancesco

Francesco D’Ovidio (Campobasso 1849-Napoli 1925) è attualmente poco citato nell’ambito della dantistica, eppure i suoi numerosissimi saggi riservano tuttora spunti degni di meditazione e proposte significative: vale perciò la pena di riproporre qui alcune notizie essenziali e un affondo sulla ‘noterella’ relativa a Inferno IV che, a una verifica puntuale, si conferma ancora valida.

Cominciamo col fornire qualche coordinata generale (senza rinvii bibliografici puntuali, per alleggerire il testo). Dopo alcuni contributi presenti nei Saggi critici, il lavoro di Francesco D’Ovidio dedicato al sommo poeta si articola e si suddivide in cinque volumi che, nell’idea del Nostro, andavano a formare un unico corpus. Il primo volume interamente dedicato al Sommo Poeta fu pubblicato nel 1901 con il titolo Studii sulla Divina Commedia. Il corposo libro si articola in contributi editi precedentemente (in riviste, giornali, atti di convegni) e in contributi inediti, più o meno ampi, dedicati a vari personaggi del poema e a questioni più o meno rilevanti, secondo il gusto del D’Ovidio. In definitiva, si tratta di un vero e proprio “contenitore” delle tesi dovidiane da cui emergono molti contributi degni di interesse. In Dante e la magia il Nostro inaugura le riflessioni su Inf. XX, canto che legherà indissolubilmente ad Inf. XIX, analizzando le diverse reazioni psicologiche e il modus operandi del Dante-agens e di Virgilio nei confronti dei papi simoniaci l’uno e degli indovini l’altro. Il disdegno di Guido ripercorre e amplia quanto il Nostro affermava in un contributo precedente, contenuto nei Saggi Critici (Note sul verso del X canto dell’Inferno: forse cui Guido vostro ebbe disdegno); la tesi fondante del Nostro è che il disdegno di Guido fosse per la letteratura latina e, nello specifico, per Virgilio poeta. Di grande rilievo, come dimostrato dalle attenzioni che ha continuato a ricevere nel corso del tempo, è il contributo Cristo in rima, nel quale il Nostro riflette sul perché Dante abbia centellinato l’uso del vocabolo Cristo nel Paradiso.

Un nuovo gruppo di saggi fu diviso in due volumi sotto il titolo di Nuovi studii danteschi; il primo volume, Nuovi studii danteschi: Il Purgatorio e il suo preludio, venne pubblicato nel 1906 mentre il secondo volume, Nuovi studii danteschi: Ugolino, Pier della Vigna, i simoniaci e discussioni varie venne pubblicato nel 1907. Anche nei Nuovi studii il D’Ovidio alterna contenuti inediti a contenuti editi, ma aggiornati, rivisti, cesellati.

Al 1926 (e dunque, postume) risalgono le ultime due pubblicazioni di carattere dantesco del D’Ovidio; la prima, Nuovo volume di studii danteschi, si presenta nuovamente come un vero e proprio contenitore in cui il D’Ovidio raccoglie articoli e pubblicazioni precedenti (contenuti in Atti Accademici o riviste), talvolta modificati e aggiornati. L’idea del D’Ovidio era quella di raccogliere tutti gli articoli successivi all’ultimo volume del 1907 e coordinarli in un quarto e quinto volume di un ideale progetto unitario (gli Studii danteschi, appunto): il Nuovo volume di studii danteschi rappresenta dunque il quarto volume. Mentre il quinto e ultimo volume, sempre datato 1926, è L’ultimo volume dantesco.

Il corpus è attraversato dallo stile unico e dal particolare metodo del dantista, che oscilla spesso tra la più minuziosa, millimetrica, analitica e puntuale ricerca degli elementi, battendo in lungo e in largo la sterminata bibliografia, i documenti sulla vita di Dante, gli articoli degli studiosi italiani e non, le scritture sacre, la letteratura greca e latina e una stratificata commistione di osservazioni psicologiche, brillanti intuizioni, ipotesi azzardate, voli pindarici o meglio “arzigogoli”: digressioni più o meno centrate che alle volte rischiano di appesantire la trasparenza e la scorrevolezza dell’argomentazione di partenza. Proprio da questa passione per gli “arzigogoli”, ossia la tendenza a trattare accuratamente (e copiosamente) anche problemi danteschi in apparenza minori (ma spesso invece indicativi o sintomatici), è nato uno dei molti contributi ancora degni di interesse.

Un’eccezione alla norma dell’indicare chi dica le parole che il testo riferisce è una sorta di divertissement di cinque pagine scarse che nacque dalla volontà del D’Ovidio di rileggere la Commedia nella sua interezza con il fine di appuntarsi tutte le espressioni utilizzate da Dante nell’indicare chi dica le parole che il testo riferisce. Terminata la lettura, il D’Ovidio rilevò una singola eccezione, presente in Inf. IV ai vv. 73-75 (cito dall’ed. Petrocchi, ma non si registrano variazioni sostanziali nelle edizioni critiche più recenti):

<<O tu ch’onori scïenza e arte,

questi chi son, c’hanno cotanta onranza

che dal modo delli altri li diparte?>>

Anche a detta del D’Ovidio, la presenza del solenne vocativo rivolto a Virgilio e la subitanea aggiunta di E quelli a me (v. 76) rendono evidente che a parlare sia Dante. Ma, ciononostante, un elemento di demarcazione, ovvero una formula come p.e. dissi, diss’io, e io a lui, ecc., è assente. Possiamo affermare che non basta la magniloquenza del vocativo per giustificare l’assenza di formula demarcativa, come avverrà sempre nel poema. A riscontro, si può fornire un altro esempio di vocativo, certamente non meno solenne di quello di Inf. IV, questa volta accompagnato da una formula ai vv. 91-96 di Inf. XI (cfr. v. 95):

<<O sol che sani ogni vista turbata,

tu mi contenti sì, quando tu solvi,

che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.

Ancora indietro un poco ti rivolvi, –

diss’io– là dove di’ ch’usura offende

la divina bontade, e ’l groppo solvi>>.

Un caso molto diverso è quello del primissimo incontro tra i due poeti, in Inf. I vv. 79-84:

<<Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte

che spandi di parlar sì largo fiume?-

rispuos’io lui, con vergognosa fronte-

O degli altri poeti onore e lume,

vagliami il lungo studio e ’l grande amore

che m’ha fatto cercar lo tuo volume. […]

Qui il rispuos’io (v. 81) si collega a con vergognosa fronte, espressione necessaria per mettere in evidenza l’atteggiamento di totale reverenza del Dante-agens, ma in ogni caso, anche in questo passo si registrano insieme un vocativo e una delle molte e consuete formule per marcare i discorsi diretti utilizzate nel corso di tutto il poema.

Allo stesso modo, anche in Inf. II, vv.75 ss., è possibile notare la presenza di un vocativo solenne accompagnato da una formula demarcativa (cfr. v. 75):

Tacette allora e poi comincia’ io:

O donna in virtù sola per cui

l’umana spezie eccede ogni contento

di quel ciel c’ha minor li cerchi suoi,

tanto m’aggrada il tuo comandamento, […]

Nei tre canti precedenti ad Inf. IV, si registra costantemente la compresenza di vocativo e formula per marcare i discorsi diretti in due di essi. E andando oltre, in Inf. V ai vv. 16-20 Minosse si rivolge al Dante-agens con un vocativo, e anche qui non manca un disse Minòs al v. 17. Se su Inf. III non è possibile fare riscontri di questo tipo (non sono presenti usi del vocativo), possiamo comunque affermare che nei primi cinque canti sono presenti quattro esempi di vocativo solenne, in tre casi accompagnato da una formula di segnalazione di chi sta parlando. L’unico caso in cui essa è assente è proprio ai vv. 73-75 di Inf. IV. Si potrebbe ipotizzare che la regola individuata non fosse ferrea già nei primi canti dell’Inferno, come diventerà in tutti i canti del poema. In ogni caso, è giusto non trascurare quella che sembra essere una vera e unica eccezione, forse dovuta al fatto che i primi canti ebbero una scrittura autonoma (magari prima dell’esilio) e non furono più ritoccati dall’autore. In ogni caso, l’osservazione di D’Ovidio resta valida e dovrà essere ulteriormente indagata in un articolo apposito.