e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)

Intervista a Roberto Mercuri

Roberto Mercuri è professore emerito di Letteratura italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 2021 è uscito il suo commento alla Commedia edito da Einaudi che, dopo soli pochi mesi, è già giunto alla seconda ristampa. Lo abbiamo intervistato con alcune domande su questa sua ultima fatica.

Professore, quali sono le scelte che ha operato per la stesura del suo commento?

Il commento si basa sull’analisi della Comedia nei suoi diversi aspetti letterari, storici, filosofici, teologici, linguistici, narrativi, strutturali, semantici, retorici. Per ricostruire il sistema di scrittura del poema, ho operato a livello intertestuale (riuso degli intertesti biblici, classici e medievali; intratesuale (richiami interni alla Comedia); macrotestuale (re-interpretazione e ri-semantizzazione di problematiche e temi affrontati nelle opere dantesche precedenti il poema).
Per quanto attiene all’intertestualità, Dante legge i testi classici e cristiani secondo il sistema tipico dell’apprendimento medievale che prevede l’assimilazione del testo di un auctor, sia esso la Bibbia o l’Eneide, in uno con il commento degli esegeti e degli scoliasti che veniva così a costituirsi come parte integrante del testo stesso. Per questo occorre rifarsi non solo alla fonte ma anche alla sedimentazione culturale che l’esegesi classica, cristiana e medioevale ha esercitato, nei secoli, sulla fonte stessa, il cui riuso da parte di Dante va attentamente analizzato. Onde restituirne tutta la complessità significativa.

A proposito di intratestualità, vale la pena notare che il termine palinodia (ritrattazione), usato da alcuni studiosi, non rende appieno il senso dell’operazione dantesca fondata, invece, sull’integrazione, che produce un arricchimento del potenziale cognitivo e comunicativo. Come lo stesso Dante dichiara in Cv I, i, 16:
“E se ne la presente opera, la quale Convivio è nominata… più virilmente si trattasse che ne la Vita nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella”.

Uno degli obiettivi di questo commento è quello di rendere accessibile un’ermeneutica della Comedia anche al pubblico dei non addetti ai lavori. Il lettore è invitato a entrare nella scrittura del poema così che le chiavi di lettura proposte inducano a suggestioni di lettura anche personali. Per arrivare a questo, occorre partire non dai temi, ma dalla scrittura della Comedia, per poi tornare ai temi che acquistano così nuovi significati e aprono a differenti prospettive. Secondo il formalismo russo, i temi si susseguono nel tempo e sono sempre gli stessi. Infatti, aggiungo, i temi acquistano nuove forme e nuovi significati nel momento in cui, nella scrittura di un’opera, diventano motivi: i contenuti autobiografici e biografici, storici, politici, filosofici, metalinguistici della Comedia esprimono il loro profondo e autentico significato nella forme della scrittura dantesca. I temi abitano la letteratura, i motivi la attraversano. Non sarà, forse, un caso che l’etimologia della parola tema rimandi alla staticità (gr. tithemi) e quella della parola motivi rinvii al dinamismo (lat. movere).

Quali sono le novità che ritiene di aver apportato riguardo all’interpretazione di alcuni passi danteschi?

Scelgo tre esempi, uno per ogni cantica.

A. In If I, 63 Virgilio appare a Dante come “chi per lungo silenzio parea fioco”:

«Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,/dinanzi a li occhi mi si fu offerto /chi per lungo silenzio parea fioco». (If I, 61-63)
Gli esegeti hanno costantemente riferito il “lungo silenzio” a Virgilio, cosa quanto meno improbabile data la notorietà del poeta e delle sue opere, divenute nel medioevo icone esemplari dei tre stili, raffigurati nella Rota Vergilii. Propongo quindi di riferire il lungo silenzio non a Virgilio, ma ai suoi interlocutori. Ritengo che Dante sia stato suggestionato dal salmo 68, 4 ( «Laboravi clamans; raucae factae sunt fauces meae») e dall’interpretazione di Agostino:
«Quanto intenso e assiduo fu il messaggio di Cristo, tanto divenire fioco (raucae factae sunt fauces eius) nel proclamare: Guai a voi scribi e farisei… Egli parlava in modo chiaro, ma ai suoi ascoltatori la sua voce sembrava fioca (sed illis raucae fuerunt fauces eius) poiché non comprendevano il senso delle sue parole (quia voces eius non intellegebant). (Agostino, Enarrationes in Psalmos, ps. 68, 4)
Dunque l’epiteto fioco non qualifica l’emittente Virgilio ma la ricezione difettosa dei destinatari. Nello schema della comunicazione stilato da Dante nel canto I dell’Inferno Virgilio è fioco non perché silente ma perché non ascoltato: anzi l’epiteto fioco segnala la sollecitudine nell’emissione del messaggio; il lungo silenzio è quello del destinatario che non ascolta e non comprende e quindi non risponde alla sollecitazione della parola divina.
Dante estende il motivo scritturale del silenzio a significazione metalinguistica e lo funzionalizza a esprimere un criptico manifesto letterario, in cui definisce la propria posizione e il proprio ruolo di scrittore. Infatti, l’apparizione di Virgilio segnala la legittimazione di Dante nel ruolo di suo privilegiato discepolo, ciò che è confermato dalla esplicita dichiarazione di discepolanza da parte di Dante che lo riconosce come «lo mio maestro e ’1 mio autore» (If. I, 85).

B. Il metodo figurale

Dobbiamo a Erich Auerbach l’accertamento del riuso nella Comedia del metodo figurale, tipico dell’esegesi biblica che leggeva il Vecchio Testamento come umbra figurale, cioè prefigurazione degli avvenimenti il cui adempimento è raccontato nel Nuovo Testamento. Giustamente Auerbach ha collegato l’apparizione di Beatrice (Pg XXX) al versetto del Cantico dei cantici, “Veni sponsa de Libano” con cui viene accolta nel Paradiso terrestre. Per l’esegesi biblica le immagini della sponsa e dello sponsus sono allegorie che rappresentano, rispettivamente, la Chiesa e Cristo. L’incontro, dunque, fra Beatrice e Dante è un analogon di quello fra la sposa-Chiesa e lo sposo-Cristo.
Sulla base delle acquisizioni di Auerbach, ho tentato di ricostruire la strategia della scrittura che Dante ha perseguito nella Comedia. Ho riscontrato che il metodo figurale utilizzato da Dante nel poema non si ferma alla sola analogia, ma svolge un’importante funzione narrativa che connette personaggi, episodi, percorsi di senso e nodi problematici. In questo caso, la metafora nuziale di Pg XXX segna, da un lato, la critica etico-politica della Chiesa simoniaca, sposa adultera (If XIX) e «puttana» che collude con il re di Francia Filippo il Bello (Pg. XXXII); dall’altro lato, l’esaltazione della Chiesa, fedele alla parola di Cristo, raffigurata nelle mistiche nozze di san Francesco con la Povertà (Pd XI), antitetiche a quelle dei cardinali che sposano la cupiditas («cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem» Epist. XI, 7).

C. Giasone

La sua figura ha una grande rilevanza nell’impalcatura della Comedia. L’eroe greco è iscrivibile nell’area della megalopsichia a cui appartiene anche Ulisse; i due eroi greci sono caratterizzati dall’ambiguità, intesa nel senso etimologico di inesausta ricerca (da amb+agere = cercare intorno). In loro, l’ansia di conoscenza e la sfida intellettuale coesistono con l’astuzia e l’inganno esercitati indifferentemente su uomini e donne.
Una delle funzioni narrative di Giasone è di essere un’anticipazione di Ulisse: entrambi viatores equorei, protagonisti di memorabili traversate marine, ambedue fraudolenti. Malgrado la grandezza, Giasone, come del resto l’eroe omerico, è un esempio dell’impiego delle virtù dell’animo e dell’intelligenza per raggiungere, però, un falso obiettivo. Tant’è che Dante, se prima ricorda la conquista del vello d’oro e l’impresa degli Argonauti rimarcando le doti di saggezza e coraggio di Giasone, subito dopo menziona l’opera di seduzione nei confronti di Isifile, inganno condotto con «segni e con parole ornate».
La parola «segni» e il sintagma «parole ornate» richiamano l’area semantica della poesia e conferiscono a questo incontro una spiccata valenza metalinguistica; sebbene anche Virgilio sia designato dall’uso di una «parola ornata» (If II, 67), va rilevato che l’eloquenza di Giasone è quella sofistica volta all’inganno, mentre quella di Virgilio mira all’acquisizione della verità. Vale la pena ricordare che tutta l’esperienza di Malebolge è preceduta da un appello ai lettori in cui Dante, nel dichiarare il titolo del suo poema (Comedìa), lo qualifica come opera veritiera in antitesi a Gerione, simbolo della frode e della menzogna. A conferma della complessità del personaggio è da sottolineare che il mito di Giasone e degli Argonauti segna anche l’inizio (Pd II, 16-18) e la conclusione del Paradiso (Pd XXXIII, 94-96).
Gli Argonauti, che si stupiscono nel vedere Giasone arare come un contadino, e Nettuno, che altrettanto stupito guarda «l’ombra d’Argo» dal fondo del mare, alludono alla lettura dal duplice punto di vista dei lettori e dello scrittore: i primi devono penetrare oltre la lettera (ombra = umbra futurorum) per una comprensione più profonda del testo (genotesto) non limitata alla sua superficie (fenotesto); il secondo ripercorre dal profondo dell’opera-mare (genotesto) gli aspetti strutturali, linguistici, stilistici e narrativi del suo poema (fenotesto).
In termini metalinguistici, è qui rappresentata in forma criptica l’innovativa operazione dantesca di integrazione degli stili, che rivoluziona il rigido principio della corrispondenza fra stile e argomento, rappresentata nella Rota Vergilii che attribuiva a ogni stile i corrispondenti protagonisti, animali, strumenti, spazi e piante. In questo caso, salta agli occhi degli Argonauti-lettori l’assoluta novità, che li spiazza, dell’eroe epico Giasone, protagonista dello stile alto (gravis stylus), che ara la terra con l’aratro e coi buoi, strumento e animali caratteristici dello stile medio (mediocris stylus). Aggiungo che è anche possibile ipotizzare la conoscenza da parte di Dante dell’Indovinello veronese, vergato da un anonimo copista a margine di un foglio di un manoscritto mozarabico pervenuto nell’VIII secolo alla Biblioteca Capitolare di Verona, dove Dante lo avrebbe potuto leggere negli anni del suo soggiorno veronese. Nell’Indovinello l’aratura e la semina significano la scrittura con inchiostro nero su foglio bianco:

«se pareba boves
alba pratalia araba
et albo versorio teneba
et negro semen seminaba».

E se anche Dante non lo avesse letto, la metafora circolava ampiamente nel Medioevo, come ha dimostrato Curtius. Aggiungo che, nell’importante appello ai lettori (Pd II, 1-18) la parola solco, hapax nel poema, è termine agricolo (sulcus) che si riferisce all’operazione di aratura e che rimanda metaforicamente all’incisione su cera e per estensione alla scrittura sui fogli dei manoscritti. La parola – attestata fin dal primo secolo d.C. con intensificazione a partire dal IV secolo – connota l’opera-nave di Dante la cui scia i lettori devono seguire. Mediante questa raffinata strategia allusiva, Dante si identifica con Giasone, adempiendone il mito nella storia e nella verità del suo poema, a conferma della funzione metalinguistica della navigazione dell’eroe greco e dei suoi Argonauti.

Quali sono le interpretazioni preferibili su alcuni dei luoghi più controversi?

Le soluzioni offerte nel mio commento ai parecchi passi controversi della Comedia scaturiscono dalla metodologia che ho adottato, basata sulla ricostruzione del sistema di scrittura pensato da Dante per il suo poema, costruito sul riuso degli intertesti biblici, classici e medioevali latini e volgari e su una rete di campi semantico-metaforici che costituiscono l’ossatura della Comedia.
A questo proposito, risulta particolarmente innovativa l’elaborazione dantesca della figura retorica della metafora.
Con le rime dell’esilio, riscontriamo un incremento quantitativo e qualitativo della metafora che, nella Comedia, si intensifica ulteriormente dando luogo a grandi campi semantico-metaforici, vere e proprie transumptiones, in alcuni casi composte da una metafora e da una similitudine: ad esempio, la metafora del cammino e la similitudine del naufrago nel canto I dell’Inferno, le prime del poema.
La transumptio è definita dalla retorica classica come una metafora estesa e sostanzialmente è ripresa in tale accezione dalle poetrie medievali. L’uso della transumptio nella Comedia è un’operazione assolutamente innovativa e, infatti, i poeti volgari anteriori e contemporanei a Dante non la utilizzano. Dante la impiega in modo affatto originale poiché trasforma la natura retorica delle transumptiones, e quindi il loro tradizionale impiego descrittivo e esornativo, in funzioni narrative che segnano percorsi di senso entro la struttura e l’ordito narrativo del poema.

Nella parafrasi del testo ho fatto particolare attenzione alla polisemia della parola poetica. Tre esempi:

1. Un Veltro “caccerà per ogne villa” (If I, 109) la lupa; il verbo “caccerà “non significa “scacciare”, ma perseguire con azione di caccia”. Qui la transumptio venatoria evoca il trattato di Federico II De arte venandi cum avibus e quindi veicola in modo allusivo il pensiero storico e politico di Dante, fautore dell’Impero, eletto dalla provvidenza divina alla guida dell’umanità.

2. Tetragono (Pd XVII, 24), riferito a Dante, non significa semplicemente resiliente ai rovesci di fortuna, ma è un riferimento al 4, numero della perfezione dell’uomo e della natura (4 sono i punti cardinali, 4 le stagioni, 4 i punti cardinali etc.).

Rispetto all’edizione Petrocchi, ha apportato alcune revisioni al testo del poema?

Sostanzialmente ho mantenuto il testo Petrocchi, ma ho motivato nelle note sia la concordanza sia la discordanza su alcune lezioni.

Tre esempi:

1. If I, 48. Ho confermato, con Petrocchi, la lezione tremesse che preferisco a temesse in quanto Dante intende sottolineare la rielaborazione in chiave epico-drammatica di un motivo lirico mediante l’allusione a Cavalcanti – da cui Dante si è ormai distaccato (cfr If X) – il quale descrive l’apparizione di madonna che «fa tremar di chiaritate l’âre» (Chi è questa che vèn, 2).

2. Pg I, 8-10. Diversamente da Petrocchi, alla rima sono:suono ho preferito la rima equivoca, attestata in diversi codici, sono (voce del verbo «essere») : sono (sostantivo «suono») che accentua la piena unione del poeta con la sua poesia.

3. If I, 3. «Ché la diritta via», va letto «che la diritta via» in quanto il che, in questo caso polisemo, ha la funzione di rappresentare la condizione d’incertezza, di dubbio e di timore dell’uomo al bivio che vive la crisi e quindi il dramma della scelta: il momento cruciale vissuto da Dante è reso tangibile dalla voluta ambiguità semantica del connettivo che, sul cui significato i critici si dividono fra chi lo considera causale (Dante si ritrova nella selva poiché ha perso la strada maestra) e chi lo considera consecutivo (si ritrova nella selva così che ha smarrito la strada maestra), mentre una più sottile interpretazione gli attribuisce valore modale (si ritrova nella selva nella condizione di chi si è perso). Tale polisemia scandisce il processo emotivo e mentale di Dante e di ogni uomo che ripensi la sua vita. L’agens oscilla dunque fra il pensiero del passato, alla ricerca delle cause (che causale), e il pensiero della condizione presente come conseguenza del passato (che consecutivo); contemporaneamente, trovandosi nella condizione dello smarrimento (che modale), pensa alla risoluzione della crisi, proiettandosi nel futuro.