e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Il sonetto della Garisenda: proposte per un’interpretazione

di Alberto Casadei

In un nuovo contributo edito nell’importante volume Dante e Bologna. Istituzioni, convergenze e saperi, a cura di Armando Antonelli e Franziska Meier (Ravenna, G. Pozzi, 2022), lo storico Berardo Pio fra l’altro sottolinea che non ci sono motivi stringenti per collocare il celebre sonetto della Garisenda nel periodo intorno al 1286, caratterizzato da grandi ristrutturazioni degli edifici circostanti e delle torri prospicienti Strada Maggiore. In effetti, se si torna a quel testo dopo l’edizione critica di Domenico De Robertis (che, è ben noto, privilegiò come originale e pienamente dantesca la versione bolognese tràdita da Enrichetto delle Querce), nonché dopo i commenti di Claudio Giunta (2011) e Marco Grimaldi (2015), i dubbi interpretativi sembrano tutt’altro che risolti, come ha ribadito più volte un esperto della questione, Alfredo Cottignoli, e come ha precisato lo stesso Grimaldi in un recentissimo contributo (Redazioni d’autore e varianti di tradizione. Sul sonetto dantesco della Garisenda – Rime LI; 42, in “Prassi ecdotiche della modernità letteraria”, VI, 1, 2021, pp. 95-110), al quale si rinvia per la bibliografia pregressa. E tuttavia, il non dover per forza legare il sonetto al 1286, com’è corretto stando alla lettera del testo, permette forse di far emergere alcuni punti critici essenziali. In primo luogo, quella che a Guglielmo Gorni sembrò “un’aporia minore del discorso” è invece un obbligo sintattico fortissimo: mi riferisco (citando dall’ed. De Robertis della versione bolognese) alla connessione tra “poi la Garisenda / torre [gli occhi] miraro” dei vv. 3-4 e la coordinata immediatamente successiva “e non conover quella” del v. 5, che induce chiunque legga senza pregiudizi ma solo su basi regolarmente grammaticali a considerare “quella” un’entità come la prima nominata, ossia una diversa torre, peraltro poi indicata come maggiore, addirittura “la maçor” (v. 6) fra le tante bolognesi.

Ora, il punto è che questa torre, vicinissima alla precedente ma forse, nell’urbanistica confusa del periodo, non distinguibile (come in effetti può avvenire, se ci si trova troppo sotto a un edificio, di non vederne un altro nascosto dietro quello), è una e precisa, quella detta già allora “degli Asinelli” (o “Asinella”), ma non nominata esplicitamente nel componimento. La mancata nominazione deve spingere il lettore a indovinare di quale torre si tratti, e il testo suggerisce implicitamente la risposta grazie all’impiego, allusivo e indicativo, della rima in –elli, che oltretutto si alterna nelle quartine proprio con quella in –enda della torre-rivale. In analogia a quanto richiedono numerosi componimenti latini e volgari che trasmettono un indovinello o un’allusione da decifrare (si veda, a titolo esemplificativo, C. Giunta, Due saggi sulla tenzone, Roma-Padova, Antenore, 2002, pp. 202 ss.), anche in questo caso il lettore dovrebbe capire a quale tra le numerose torri dell’epoca si poteva far riferimento, appunto a quella più alta, possente e celebre, realizzata dalla famiglia degli Asinelli: una nozione banale se autore e lettore sono bolognesi; molto meno se l’autore è, per esempio, toscano e si rivolge magari a toscani come lui. Ecco allora che tutta la prima parte del componimento, e in generale l’assunto di fondo, è solo quello scherzoso dell’auto-rimprovero di aver perso una bella occasione, di vedere non solo la Garisenda bensì pure l’ancora più notevole Asinella: colpa grave se, come a questo punto si potrebbe ipotizzare, chi scrive non abita stabilmente o da (e per) lungo tempo a Bologna, ma è invece un fiorentino (o un non-bolognese) che era in visita alla città e ha mancato per un errore prospettico di vedere la torre più importante. In questo modo si spiega il tono da “divertita iperbole di scuola” già avvertito in particolare da Contini, che lascia poco spazio a sovrainterpretazioni amorose o politiche o socio-culturali, quasi tutte dovute alla riluttanza ad accettare l’esiguità dell’argomento effettivo: che però, stando alla lettera, si rivela ineliminabile.

Restano questioni fondamentali, per esempio se la prima versione del sonetto era già in bolognese (la patina, ha osservato Armando Antonelli, si coglierebbe in misura superiore a quella normalmente riscontrabile nelle scritture di Enrichetto delle Querce), in una forma attribuibile con sicurezza all’autore, e non invece a uno o più copisti felsinei. A mio avviso bisogna notare che il tanto discusso “sonelli” del v. 8, che va riferito agli occhi e, secondo vari studiosi, potrebbe essere un adattamento di un vocabolo quanto meno emiliano o settentrionale (di cui peraltro non si trova un’attestazione chiara in altri testi), risulta comunque, per fonetica (con la garanzia della rima), toscaneggiante, il che è quanto meno singolare, come notava già Giunta, se il testo doveva ab origine mimare il bolognese almeno per i suoi tratti più vistosi. D’altra parte, la lezione alternativa “con elli”, presente nelle versioni toscane tradite, in primis, dal Chigiano L VIII 305, se non va proprio incontro alla (vitanda) identità di rima con l’“elli” al v. 2, ci va davvero molto vicino, e sembra una soluzione abbastanza facile per sistemare uno strano “sonelli”, a costo però di creare una frattura sintattica tra v. 8 e v. 9 davvero ardua da giustificare, come riconoscono i commenti di Giunta e Grimaldi. Morale: in genere le lezioni del Chigiano e degli affini sembrano superiori (p.e. al v. 4 i “risguardi belli” della Garisenda sono surrogati da “li sguardi belli” nella versione di Enrichetto, probabile banalizzazione), ma non al v. 8, dove tutto fa pensare che “sonelli” fosse un aggettivo colto (magari con scempia settentrionale introdotta dai copisti), usato da un toscano in riferimento agli “occhi”: e il calco dal latino “somnellus”, attestato anche nelle Derivationes di Uguccione per “sonnacchioso”, può ben aver suggerito, in un ambito di ricercatezza lessicale, un “sonnelli” o “sonelli”, che non risulta altrove attestato ma farà poi famiglia, a Firenze, con i tanti “sonnellini” (sostantivi) già del XV secolo.

Se si accettano queste indicazioni, un’ipotesi da valutare per ricostruire i caratteri della locuzione (non proprio quelli storico-fattuali, irraggiungibili) sarebbe la seguente: un poeta non bolognese, probabilmente toscano o addirittura fiorentino, si trova a passare per Bologna, vede bene la torre Garisenda ma, una volta rientrato nei suoi luoghi, si rende conto di aver mancato un’altra torre, vicinissima e “maggiore”, quindi più importante da vedere, quella degli Asinelli. Imbastisce allora un sonetto scherzoso che presenta anche alcuni preziosismi (come “sonnelli” o “sonelli”), ma resta un simpatico esercizio senza alcuna valenza ulteriore se non appunto la sfida al lettore (non bolognese) di capire quale sia la seconda torre in questione: com’è ovvio, questo stesso testo scritto a Bologna per bolognesi non avrebbe molto senso (basterebbe un rapido ritorno negli stessi luoghi per visionare l’Asinella e salvare gli occhi!) e di qui sono nate le tante possibili sovrainterpretazioni. D’altra parte, una versione iniziale in bolognese, oltre ai problemi linguistici specifici, lascia il campo al problema di chi avrebbe ri-fiorentinizzato il testo attribuito a Dante, con il sotto-problema della nascita della variante “con elli”, ben difficile da considerarsi un’autoriscrittura.

Il sonetto, divulgato poi a Bologna perché riferito alla città e semmai già adattato linguisticamente, arriva a Enrichetto che lo copia con grande accuratezza e in posizione enfatica (la carta che fronteggia l’intitolazione del registro); non lo modifica nella sostanza, per esempio lasciando il singolare (anche per un autentico parlante bolognese) “sonelli”, ma recepisce o introduce alcune lezioni forse deteriori o banalizzanti rispetto all’originale. Tuttavia, in questo tentativo di ricostruzione resterebbero da spiegare vari aspetti, per poterla collocare e valutare nell’ambito delle ricerche sistematiche sulle rime dei Memoriali, in particolare di quelle storico-archivistiche condotte da Armando Antonelli, Massimo Giansante, Giorgio Marcon e altri da oltre trent’anni. È possibile che Enrichetto attribuisse una valenza speciale a questo sonetto, oppure lo considerava solo un elegante e piacevole omaggio alla sua Bologna, e in particolare alle due torri a lui ben note? Le spiegazioni sinora avanzate non offrono appigli per comprendere cosa potesse aver interessato il notaio: a mio avviso, se si parte dalla spiegazione letterale, potrebbe essere sufficiente il fatto che è apprezzabile l’omaggio di un poeta (forse ignoto) alla città di Bologna attraverso l’esaltazione di due delle sue più famose torri, sia pure in modi ‘comici’. Da questa base si dovrebbe comunque partire per porre in evidenza ulteriori aspetti che giustifichino la scelta e l’operato di Enrichetto (e si ricordino le interpretazioni, per esempio di Marcello Ciccuto, che coinvolgono il versante figurativo bolognese).

Ultima questione: il sonetto è di Dante? Se accettiamo, anche sulla scorta delle considerazioni di Berardo Pio, che il giovane Alighieri non debba per forza essere stato scolare a lungo a Bologna, ma possa esservi transitato più di una volta, magari per periodi relativamente brevi però sufficienti per esplorare la città, questo sonetto potrebbe essere davvero uno fra i suoi primi esercizi, quasi da inserire tra i puerilia. Resta tuttavia un dubbio: Enrichetto, che ha comunque un’autorevolezza molto alta data la sua straordinaria vicinanza all’epoca e ai luoghi della prima diffusione, non ci trasmette il nome dell’autore e ciò, oltre a rientrare nella prassi delle citazioni di versi nei Memoriali, potrebbe riflettere una più o meno lunga circolazione anonima; d’altronde, molti dei numerosi testi popolareggianti trasmessi dai notai bolognesi (stando all’edizione critica di Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, a cura di Sandro Orlando, con la consulenza archivistica di Giorgio Marcon, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005) sono rimasti privi di attribuzione. Di certo il nome di Dante è parecchio diffuso nel testimoniale (basti il rinvio ancora all’articolo di Marco Grimaldi sopra citato per un riassunto della situazione), sempre in rapporto alla versione toscana. Sembra in ogni caso indispensabile ridurre l’ipotetico tasso di sperimentalismo linguistico, se il testo è stato scritto in fiorentino e poi bolognesizzato una o più volte; dovremmo semmai, in mancanza di riscontri documentari ulteriori, considerarlo la prova di un passaggio del giovane poeta attraverso la dotta e famosa Bologna, non di un suo soggiorno prolungato per motivi di studio (che ci saranno, e decisivi, ma quasi sicuramente dopo l’esilio, come ha ben ribadito di recente Mirko Tavoni, Quanto è probabile che Dante abbia scritto il “De vulgari eloquentia” a Bologna e perché ci interessa?, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», XXIV, 2021, 2, pp. 11-109).