e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Punti Critici Danteschi – L’avvio del poema dantesco: ipotesi a confronto

 

di Riccardo Bassi e Margherita Paoli

Lo scorso 23 marzo, presso l’Università di Pisa, si è svolto il seminario internazionale dal titolo L’avvio del poema dantesco: ipotesi a confronto, organizzato dal gruppo Dant&noi dell’Associazione degli Italianisti, in collaborazione con il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa e con il patrocinio della Società Dantesca Italiana. Oltre ai relatori, il seminario ha visto l’intervento di numerosi studiosi italiani e internazionali, dottorandi e studenti dell’ateneo pisano. Dopo i saluti iniziali del prof. Alberto Casadei, la prima parte del seminario è stata coordinata dal prof. Marcello Ciccuto, già docente presso l’Università di Pisa e presidente della Società Dantesca Italiana.

Il primo intervento, tenuto da Leyla M.G. Livraghi (UNIPI), ha esposto lo status quaestionis sull’avvio del poema dantesco e, in particolar modo, sulla plausibilità della notizia, riportata da Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante e nelle Esposizioni sopra la Comedia, secondo cui almeno alcuni canti iniziali dell’Inferno fossero stati composti a Firenze prima dell’esilio. Dopo aver brevemente ripreso i testi boccacciani e le relative problematiche esegetiche, espresse dallo stesso certaldese, una su tutte quella relativa alla profezia di Ciacco nel VI canto dell’Inferno, Livraghi ha illustrato le posizioni esegetiche dei vari studiosi, dividendole macroscopicamente in tre differenti gruppi, pur evidenziandone le differenze: coloro che negano totalmente la notizia di Boccaccio, come Paolo Trovato, coloro che tentano una mediazione, come Giorgio Padoan ed Emilio Pasquini, e coloro che ritengono, almeno in parte, fededegno quello che è riportato nelle opere boccacciane, come Giovanni Ferretti, Umberto Carpi, Marco Santagata e Alberto Casadei. Livraghi, in seguito, ha posto l’attenzione sul ruolo di Dino Frescobaldi, che, secondo quanto riportato da Boccaccio nelle Esposizioni, avrebbe dato avvio a una tradizione indipendente dei primi canti dell’Inferno, diffondendoli presso alcuni amici e sodali. Nessuna informazione ulteriore né alcuna traccia sono riscontrabili nella tradizione diretta o indiretta del poema dantesco; circa questa diffusione lo stesso Certaldese nutriva alcuni dubbi, come ha ribadito la relatrice. Proseguendo, Livraghi ha notato come, nel componimento Voi che piangete nello stato amaro, Frescobaldi inserisca solamente alcuni riferimenti ai primi due canti dell’Inferno, ma non alla sua continuazione; stupisce ancor di più, secondo Livraghi, l’assenza di citazione dei primi canti nelle opere di Cino da Pistoia, legato a Dante e alla famiglia marchionale dei Malaspina, presso cui l’Alighieri soggiornava nel periodo individuato dai testi boccacciani.

Il secondo intervento, tenuto da Marco Veglia, ha posto in evidenza il ruolo di Boccaccio, spesso ritenuto un falsario tout court o uno studioso non troppo preciso; Veglia, dal canto suo, ha posto l’accento sul concetto di verità contenuto nel racconto. Infatti, quando lo stesso Boccaccio dovette rispondere dell’accusa di aver manipolato dei fatti accaduti in modo differente rispetto a quanto aveva riportato nel Decameron, aveva provveduto a ribadire che la verità del racconto è il racconto stesso, che contiene un fondo veritiero incontestabile. Veglia, inoltre, ha provveduto a evidenziare come tutti i commentatori antichi sostenessero l’ipotesi di una genesi del poema nella fase apicale della carriera politica di Dante: questo potrebbe essere provato dal fatto che l’autore mai si presenta come il giusto perseguitato, se non nelle profezie a partire, però, da quella pronunciata da Brunetto Latini. L’Alighieri, infatti, pur ascoltando le parole profetiche di Ciacco e di Farinata degli Uberti, non le ascolta come un martire né esplicitamente si mostra tale al lettore, come molto probabilmente si atteggiò nell’epistola perduta Popule mee, quid feci tibi?  Veglia, citando Marco Santagata, ha rivolto l’attenzione sulla particolarità cronologica della profezia di Ciacco; visti i salti temporali repentini dal 1300 al 1301, si può ipotizzare che lo stesso Alighieri volesse mostrare come l’origine dei suoi mali fosse proprio il periodo del suo priorato. Veglia ha osservato come la Divina Commedia diventi dunque la prova della sua innocenza; lo stesso Dante non infrangerà mai, se non nell’incipit del canto XXV del Paradiso, la connotazione cronologica del suo status nel 1300; infatti, se solamente le profezie aprivano al lettore la possibilità di comprendere la reale condizione di Dante, in una data molto avanzata l’Alighieri avrebbe sentito la necessità di riconfigurare quello che Veglia ha definito «l’orologio della propria esistenza storica» con parole non profetiche. Concludendo, Veglia ha recato alcune possibili prove circa la conoscenza di fatti relativi al 1300 da parte di Brunetto Latini e di Forese Donati.

Nel terzo intervento, Paolo Trovato ha sostenuto la sua tesi circa l’infondatezza del racconto di Boccaccio, in particolar modo provando a confutare le ipotesi di Alberto Casadei. Infatti, la Divina Commedia avrebbe avuto una genesi molto tarda (1310), quando il poeta avrebbe avuto effettivamente qualcosa da raccontare, l’esilio, per mostrarsi come il nuovo Enea e il nuovo San Paolo. Trovato, inoltre, ha ribadito la sua contrarietà all’ipotesi di Casadei circa il fatto che solo la notizia del ritrovamento del quadernetto dell’incipit del poema fosse fededegna, mentre fosse da rigettare quella relativa al ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso. Dopo aver rigettato la veridicità del Trattatello, Trovato ha sostenuto che l’ipotesi di Casadei, per cui i primi quattro canti dell’Inferno rappresentino una fase anteriore alla composizione del Convivio, sia dovuta a due motivi: il primo è relativo all’ambientazione, la Settimana Santa del 1300, termine temporale in cui in Convivio non era ancora stato composto, il secondo si basa sul fatto che spesso gli autori tacciono argomenti o temi, di cui sono a conoscenza, per rivelarli solamente successivamente nel corso dell’opera. L’ipotesi di Trovato, in sostanza, si basa sulla supposta coerenza interna e organicità del poema dantesco. Concludendo, Trovato ha analizzato la possibilità che il veltro alludesse effettivamente a un particolare cane da caccia, prezioso regalo destinato ai sovrani dell’epoca.

L’ultimo intervento è stato curato da Alberto Casadei; partendo dalle ipotesi di Trovato, Casadei ha ribadito la metodologia che lo spinge ad approcciarsi alla Divina Commedia. Infatti, il significato più probabile di un testo deve essere ricercato senza prescindere dal livello letterale, da cui deve iniziare l’esegesi; per Casadei la fondatezza di un’ipotesi può verificarsi solo se si forniscono di una spiegazione tutti i casi significativi. Inoltre, il relatore ha posto l’attenzione sul fatto che l’autore non potesse spingere a un’interpretazione che il lettore dell’epoca non potesse conoscere; da questo deriva, altresì, l’ipotesi circa l’identificazione di Celestino V con il peccatore che fece il gran rifiuto (Inf. III). Solo all’inizio del Trecento si potevano manifestare le conseguenze della rinuncia di Pietro da Morrone, che, involontariamente, aveva favorito l’elezione al papato di Bonifacio VIII: come spiegare, ha ribadito Casadei, la collocazione di Celestino V all’Inferno, quando la Chiesa aveva iniziato il processo di canonizzazione? Casadei, inoltre, ha evidenziato come Dante nei primi quattro canti dell’Inferno si mostri come il peccatore pentito che desidera cambiare vita, forse ispirato dal Giubileo del 1300: così, in un contesto di pacificazione generale, che stava investendo l’Italia centro-settentrionale, senza includere Firenze, secondo il relatore, potrebbe spiegarsi la figura del veltro, che mal si accosta a un imperatore, soprattutto per l’anfibologia «e sua nazion sarà tra feltro e feltro» (Inf. I 105), che indicherebbe la nascita di questa figura di pacificatore tra Feltre e il Montefeltro. Da ultimo, Casadei ha recato come ulteriore prova, oltre alle evidenti differenze stilistiche, anche la rappresentazione dell’aldilà tradizionale che Dante stesso dà nei primi canti, molto diversa da quella che si scoprirà più avanti nella lettura del poema: infatti, il Purgatorio è rappresentato come la teologia dell’epoca indicava, ossia come una distesa di fuoco dove le anime si purificavano in attesa di essere ammessi alla visione beata di Dio. Lo stesso Paradiso, rappresentato come una città fortificata al cui centro regna Dio, e la porta di San Pietro, inequivocabilmente quella della Gerusalemme celeste, corrispondono a una visione teologicamente e biblicamente tradizionale, ma non possono giustificarsi se non come elementi di uno stato del poema precedente alle vicende biografiche che lo portano all’esilio.

Durante la seconda parte del seminario si sono alternati tre interventi relativi al racconto di Boccaccio e al rapporto tra Dante e la cultura teologica di Firenze. Gabriele Baldassari, per sostenere la genesi fiorentina dei canti in questione, ipotizza l’uso da parte di Boccaccio della canzone di Dino Frescobaldi Voi che piangete nello stato amaro, il cui testo sembra infatti riflettere la conoscenza dell’inizio del poema per la medesima vicenda allegorica inscenata. Baldassari, inoltre, individua nel testo di Dino rimandi alla canzone montanina, inviata da Dante a Firenze. Il relatore arriva così a due ipotesi: il «Voi» incipitario di Voi che piangete non è rivolto a Cino da Pistoia ma a Dante stesso, il quale poteva aver inviato, dall’esilio, alcuni canti a Firenze. Date tali conclusioni, Baldassari fa notare che nel Trattatello i plausibili elementi di realtà sono accostati a dettagli montati dall’autore. Boccaccio vorrebbe perciò confermare il proprio scettiscismo sulla questione generato dall’incipit dell’VIII canto dell’Inferno («Io dico, seguitando»). Ipotesi, questa, giudicata poco economica da Casadei.

Claudia Sebastiana Nobili sposta l’attenzione sull’uso delle fonti da parte di Boccaccio. Come primo esempio viene discusso l’utilizzo di una fonte antica: nell’Amorosa visione Boccaccio parla della storia d’amore tra Enea e Didone narrata da Virgilio ma, nelle opere successive, conclude che i due, non essendo contemporanei, non possono essersi incontrati; l’invenzione di Virgilio ha perciò fini poetici. Ulteriore esempio si trova nella Genealogia deorum gentilium, quando Boccaccio, alle prese con il termine ‘Tartaro’, cita Teodonzio, Barlaam, Virgilio e Isidoro di Siviglia: l’autore utilizza testi diversi senza commentare o prendere posizione. Lo stesso tipo di procedimento si evince nel caso di Dante. Quando Boccaccio racconta il ritrovamento degli ultimi canti, segue fedelmente la sua unica fonte: Pietro Giardini, e lo stesso uso fa delle fonti relative ai canti fiorentini, riservandosi tuttavia di giudicare inaffidabili i suoi informatori (Andrea di Leone Poggi e Dino Perini). Per concludere, Boccaccio può essere considerato un fedele ‘tramandatore’: esplicita le proprie fonti ma non prosegue nella ricerca di prove o controprove.

La ricostruzione degli argomenti filosofici e teologici discussi nel convento francescano di Santa Croce negli anni ‘90 del ‘200 è stata oggetto di approfondite ricerche di Lorenzo Dell’Orso. L’obiettivo del relatore è quello di provare come, nei primi canti dell’Inferno, ci sia un substrato comune a quello della cultura filosofica fiorentina del tempo. Dell’Orso riporta molti esempi tra cui quello relativo a Inf. I, vv. 118-119, «e vederai coloro che son contenti/ nel foco». Dalle Sententiae di Pietro delle Travi emerge la descrizione di un Purgatorio simile a una distesa di fuoco, sotterraneo e contiguo all’Inferno. Ciò sarebbe confermato dai vv. 113-122 del medesimo canto, dove Virgilio distingue due piani, un «qui» e un «sopra», con due verbi che dipendono dal v. 115: un Purgatorio, pertanto, molto distante da quello dantesco. Sulla questione è intervenuta Anna Pegoretti, che non manca di mostrare come ‘essere nel fuoco’ abbia valore metaforico e stia a indicare coloro che, pur essendo puniti, sono contenti. Al contrario, per Casadei e Dell’Orso, non ci sarebbe alcuna metafora ma un chiaro riferimento a un luogo fisico.

In seguito si sono alternati interventi a favore della cronologia tradizionale. Luisa Ferretti Cuomo suppone che le singole questioni testuali a sostegno della fiorentinità dei primi canti non siano provative, perché estrapolate dal contesto del racconto. Raffaele Pinto, in aggiunta, nota che da Inf. I a VII Dante segue un criterio romanzesco rigoroso, cioè il bilanciamento dei canti a coppie in rapporto di analogia o antitesi. All’inizio del poema, inoltre, appare chiaro che il male di Firenze deriva dalla perdita della giustizia, perciò Virgilio viene scelto come guida in quanto poeta della giustizia che Dante cercherà di imitare. Tutto ciò induce a pensare che la Commedia non possa essere stata ideata prima del II libro del De vulgari eloquentia, dove la poesia a livello più alto è considerata quella della rectitudo. Anche Pietro Beltrami si colloca in questa schiera: la Commedia deve essere stata composta dopo la catastrofe dell’esilio che emerge proprio nella disperazione di Dante nei primi due canti. Ciò sarebbe confermato anche dal fatto che il poeta, se avesse scritto una parte dell’Inferno prima dell’esilio, avrebbe dovuto intervenire su essa a progetto mutato. Casadei fa notare che Dante evita sempre di creare varianti: in molti punti della Commedia l’autore non corregge e, in generale, non torna su testi già scritti. La disperazione del personaggio nei primi quattro canti potrebbe allora essere generata non dall’esilio (di cui non c’è traccia effettiva) ma dal giubileo, da cui Dante torna sapendosi peccatore di superbia e lussuria. Questa tesi viene in parte confermata dall’osservazione di Marco Veglia, il quale sostiene che nel I canto non sono presenti riferimenti individuali e biografici per un motivo puramente narrativo: Dante aveva l’esigenza di creare un racconto in cui tutti potessero identificarsi.

L’accusa più diffusa a coloro che sostengono la tesi dei canti fiorentini è quella di concentrarsi su singoli punti, non considerando la concezione generale dell’opera; singoli punti che, come sostiene Trovato, solo se letti a posteriori acquistano un senso. Proprio partendo da questa osservazione forse due aspetti meritano ulteriori riflessioni e possono dar vita a ricerche successive. Michelangelo Zaccarello, Christian Rivoletti e Alberto Casadei invitano a soffermarsi proprio sulle differenze tra i primi quattro canti e il resto del poema. Zaccarello afferma che sono presenti due diversi modelli, un diverso uso delle fonti, dei luoghi e dei personaggi. Rivoletti aggiunge che l’elemento allegorico dei primi quattro canti scompare nel V, generando una vera e propria cesura che segna, come sostiene Casadei, l’inizio di un’altra modalità narrativa caratterizzata dall’emersione della biografia di Dante e del suo personaggio. Il secondo aspetto riguarda quelle singole questioni sviluppate da Casadei: l’analisi di precisi punti testuali non implica la mancata considerazione del poema come narrazione, ma mette in luce problemi che devono essere in qualche modo risolti prima di affrontare la questione a livello generale. Nonostante le varie prese di posizione, il seminario ha dimostrato da un lato un diffuso interesse per la questione dei canti fiorentini, dall’altro la presenza di alcuni punti che necessitano ulteriori approfondimenti e ricerche.